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L'HO CHIAMATA VALERIA

  • Immagine del redattore: Una Valeria
    Una Valeria
  • 12 mag 2019
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 29 ott 2021



Anni fa mi ero appuntata su un foglio una frase di un testo dei Bluvertigo “Se non fosse perché sono tuo figlio mi avresti già giudicato male”, a ricordarmi quanto è vero che le mamme tendono a salvare tutto dei propri figli e a scagliarsi contro le stesse cose nei figli degli altri. Non è una cosa bellissima sulla carta e forse nemmeno sulla “pelle”, ma essere mamma deve provocare questa specie di ribaltone alle diottrie e così sia.

Ecco, il mio appunto però era scritto così: “Se non fosse perché sono tua figlia, mi avresti già giudicata bene”. Eh sì, perché la mia con me non è miope, non chiude un occhio ma ne apre tre, non difende il difendibile ma attacca l’inattaccabile.

E questo foglietto me lo ritrovo tutte le volte che apro il cassetto giallo della scrivania, steso davanti alla chiavetta della firma digitale, immobile da anni, a ricordami che mia madre mi avrebbe voluta diversa. Per esempio lei voleva chiamarmi Silvia perché mi immaginava bionda con la carnagione chiara e anche di costituzione esile. Ma io sono nata nera con la carnagione olivastra e con niente a cui si potesse associare l’aggettivo ‘esile’, e così mio padre mi chiamò Valeria che significa forte. Aveva capito che dovevo essere stoica di lì a sempre e in effetti il mio nome è il mio valoroso alleato.

Più avanti mi avrebbe preferita meno vivace, meno accesa h24 come le paillettes dello Studio 54 dei tempi d’oro e meno incline a parlare, a dire fatti di continuo.

Lei mi voleva pacata, facile da addomesticare, docile come le pantere sedate dello zoo e desiderosa delle sue verità sul mondo. Avrebbe preferito studi classici, amici “classici”, che mi innamorassi dei classici bravi ragazzi, abbigliamento classico, forse anche musica classica e che imparassi a suonare la chitarra classica. Che fossi la classica figlia casa e casa (senza Chiesa, almeno quello!), casa e studio, casa e lavoro.

E invece, poverina, le è capitata la figlia che si sfracanava a terra giocando a chi corre più veloce con coetanei sconosciuti al parco, che avrebbe camminato scalza ovunque, che in coda al supermercato parlava con la gente, che solo da pochi anni mette il balsamo ai capelli ma che comunque non riesce a tenerlo in posa per più di 3 minuti scarsi perché si rompe, che ha fatto il Liceo Scientifico e non il Classico (anche se la mia matematica oggi è ferma agli insiemi), e che di classico le piace solo il tiramisù: uova, zucchero, mascarpone, savoiardi e caffè, e non si discute.


Mia madre mi avrebbe voluta senza un buco nel naso, senza tatuaggi, senza jeans strappati, senza le Adidas anche sotto un tailleur, mi avrebbe voluto astemia, avrebbe voluto non andassi mai a ballare e, quando sa che ci vado ancora, le leggo il disappunto nelle sopracciglia e nelle pieghe della fronte, così come le leggevo sconforto quando a 14 anni sparavo in macchina tutta la discografia dei 99 Posse cantando i testi a memoria.

Mi avrebbe voluta mansueta, meno pungente, una che si sveglia presto la mattina perché ci si deve svegliare presto la mattina a prescindere, una regolare, con orari regolari, pasti regolari, scelte amorose regolari. Avrebbe voluto che la osservassi cucinare per imparare, che preferissi questo ad uscire, che preferissi saper fare il ragù al saper fare gli origami, che fossi un leone in ambizioni e più lupo negli affetti.

Insomma voleva Silvia, se l’era immaginata bene, aveva aspettative specifiche; chè le proiezioni sono stronze, sono umane ma sono stronze. E così ti può capitare che tu ti immagini per filo e per segno la tua bambina e poi quella fa il contrario. Anzi, non è che può capitare, è così. Perchè i figli sono persone terze, diverse per definizione, e non possono in nessun modo essere quello che un genitore non è riuscito ad essere, a fare, a realizzare, nè seguirne i solchi. Anzi, non devono.

L’uomo ha iniziato a vivere più a lungo quando ha capito che bisogna accoppiarsi con persone diverse, perché solo così il DNA si mescola e si fortifica: le falle di uno vengono compensate dai geni dell’altro in uno scambio reciproco di biodiversità che rende possibile la nostra esistenza su questo pianeta in tutte le specie viventi. Allora perché ogni genitore si affanna per avere figli uguali a lei/lui? Perchè tutto questo delirio di onnipotenza, di un modo prescelto di essere in mezzo a miliardi di altri modi possibili? E allora qui, proprio per rispondere a queste domande, succede che genitori e figli si conoscono, a volte in ritardo, a volte troppo tardi, a volte mai, ma in ogni caso si riconoscono diversi: innamorati ma distanti anni luce, come quando guardiamo le stelle.

E io ho capito cosa mi ha trasmesso mia madre, per cosa la devo ringraziare sempre, non tanto per avermelo detto, che le lezioni frontali sono noiose, quanto per essere stata un modello vivente e costante di questa parola, così inflazionata e così travisata, maltrattata, strumentalizzata, dimenticata e sottovalutata, che è la LIBERTA’. Se oggi sono una donna libera di essere quello che voglio lo devo a lei, che anche se mi avrebbe voluta diversa e come lei, in realtà mi ha portato a scoprire chi sono io, in cosa differisco e in cosa le assomiglio, cosa voglio tenere e cosa non mi appartiene, cosa posso prendere per farne una versione più evoluta e cosa posso rigettare con decisione.

Ad oggi se sapessi suonare la chitarra non mi dispiacerebbe, ma in compenso so suonare i citofoni delle persone che mi mancano, di quelle a cui voglio bene e di quelle che voglio abbracciare senza notifiche rosse sulla home del cellulare. Ascolto i Beatles con cui mi svegliava la domenica mattina, ma andrò a ballare finché ne avrò voglia e forza, sapendo che non è un luogo la cosa di cui ho bisogno per farlo, perché ballo sempre, a casa, ché le passioni viscerali non necessitano di lezioni, orari, luoghi, competizioni o applausi. Raramente indosso tacchi ma mi piace comprarli, e reputo impagabile la goduria che può dare un buon drink e la leggerezza che possono dartene due o tre, ché Baudelaire non è che fosse un coglione.

Mia madre mi ha insegnato a parlare, a parlare tanto ma a parlare bene, soprattutto a non farmi zittire mai, mi ha insegnato a non avere peli sulla lingua, a non mandarle a dire, e facendo questo mi ha insegnato il senso della RESPOSABILITA’ delle cose che si dicono, l’onestà intellettuale da salvare di fronte alle brutture degli squali che si incontrano nella vita, e la SPONTANEITA’ di esprimersi, a parole, a gesti, in silenzio, ma di farlo al 100% senza remore, senza imbarazzo, senza frenare le emozioni, anche quando sono tristi. Ecco, su queste ci devo aver preso un po’ la mano, che a volte me le sono anche cercate queste sofferenze, ma d’altronde mi chiamo Valeria che significa forte, mica Silvia.


 
 
 

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