top of page
  • Immagine del redattoreUna Valeria

I TRENTENNI. MALE MA NON MALISSIMO.




«Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita».

Così inizia il primo canto dell’Inferno di Dante, un Dante che aveva fatto un rapido calcolo delle aspettative di vita del suo tempo stimate in una media di 70 anni ciascuno, e lui nel mezzo, ne aveva 35 pieni. E s’era perso.

Bene, ecco a voi la mia generazione: i trentenni.

I trentenni sono tutti quelli raccolti in una fascia larga nove anni, con il tre davanti e un numero qualunque dietro, sono un range a mezz’aria tra “Ehi ragazzino!” e “Buongiorno signora!”, sono il sorbetto al limone tra la portata di pesce e quella di carne, sono il cross di Holly e Benji iniziato negli anni 90 che sta ancora a metà campo, sono quelli sospesi con lo sguardo all’insù, in attesa che qualcosa finisca o inizi, che qualcosa capiti o accada, che quel pallone magari li prenda in piena faccia e li svegli o che faccia goal al posto loro; sono tutti quelli persi ognuno nel proprio girone.

Ci è toccata una generazione di merda, va detto.

La storia si è giocata mentre noi guardavamo Bim Bum Bam: Tangentopoli, Mani Pulite, la fine della Prima Repubblica, il muro di Berlino, la Lega Nord che trattava a merda i meridionali e Berlusconi che vinceva e ci prospettava anni di tette e culi su un letto di disonestà. Il disastro di Cernobyl è avvenuto mentre noi imparavamo a fare la cacca nel vasino, la Guerra del Golfo e la Mafia che faceva saltare in aria cose e persone, ci ha visti impegnati a dire la poesia di Natale a memoria in piedi sulla sedia per la strenna dei nonni, nasceva l’Unione Europea e crollavano le torri gemelle mentre noi lottavamo con i nostri genitori per tornare più tardi la sera. Non abbiamo combattuto per i nostri diritti né per quelli degli altri, non siamo stati abituati a un interesse comune da proteggere, ma a uno proprio in cui sguazzare, protetti dalla Democrazia e dalla mamma. Dai genitori che ci hanno spronato a diventare una generazione di pluri laureati come loro perché non potevano prevedere che alla fine questa strada l’avremmo trovata interrotta per crisi, che avremmo dovuto imboccare deviazioni improvvisate e tortuose, lunghe forse anche più delle ristrette aspettative di vita di Dante, e che si chiamano stage, tirocinio, assunzioni con firma di dimissioni, ricatto tra maternità e lavoro, milleeuroalmese e partita iva.

Avere trent’anni oggi è un po’ come finire in PRIGIONE giocando a Monopoly: la Prigione è collocata nella stessa casella del TRANSITO; chi è condannato alla Prigione ci va direttamente e senza mai passare dal VIA, il che significa che non riceve nessuna indennità in denaro. Quindi un bel giorno ti svegli e fai parte dei trentenni, ci vai dentro per direttissima e senza sconti: 9 anni.

Ma la cosa geniale del gioco è che dalla prigione si continua comunque a lanciare i dadi, a poter acquistare case e alberghi e a partecipare ad eventuali aste: insomma si vive. E non so se sia geniale o diabolico, ma in attesa di uscire non c’è uno stop al tempo: quello fa tic tac e vale quanto quello di chi dietro le sbarre non ci sta, e la vita va giocata da lì, come si può.



Osservo me e i miei amici, qualcuno acquista case in effetti, qualcuno si mette in trattativa con l’esterno provando a fare la formica in una condizione forzata di cicale in cui il futuro è adesso, e così questa prigione l’abbiamo ribattezzata La Catedral, proprio come fece Pablo Escobar, e dentro ci si diverte con tutto il clan. Ospiti, grigliate, giochi, e party privati, musica, cibo e alcol, compleanni, ricorrenze, feste a tema e soprattutto feste inventate, e ancora gli amori, quelli nati e cresciuti, quelli morti o abortiti, e a far da cornice l’amicizia, che è come il filo di ferro che mettono i dentisti quando togli l’apparecchio: quella cosa che serve a tenere insieme, a non far staccare mai nessuno, che salda e unisce. Visti da fuori probabilmente siamo strani, da dentro siamo semplicemente degli inventori, dei portatori sani di originalità, una tribù che balla sulla noia e sulla provincia, sul tempo e sulle regole, sulle impostazioni e i clichè. A scontare pene che condividiamo e che alleggeriamo con il peso dei sorrisi e degli abbracci, a ricordarci che siamo capaci di annegare nello Spritz ma mai nella rassegnazione, a farci compagnia come le lontre per non andare alla deriva e a fare come i pinguini imperatori, che scaldano il pianeta ballando.



Osservo anche gli altri, e ognuno ha arredato la sua Cattedrale con ciò che gli è più affine e con chi gli è più vicino.

Per tutto questo ci chiamano bamboccioni e svogliati, le stesse persone che comprano le tazze con la frase di Ghandi “La vita non è saper aspettare che passi la tempesta, ma imparare a ballare sotto la pioggia”, senza poi apprezzarla in chi ne deve fare uno stile di vita nella realtà. Perchè la mia generazione stronza è quella che bloccata sulla Salerno-Reggio Calabria, sa ridere e sorridere dei guai imparando a inventare qualcosa laddove non c’è niente.

Praticamente degli eroi.

Sembra un gran finale ma non è ancora finita, perché se me ne vado in giardino per un po’ e guardo la Catedral dall’esterno, se solo per pochi minuti mi allontano dal salotto gremito di gente, mi rimbalza davanti agli occhi la domanda delle domande: ma cosa stiamo aspettando?

Ho chiesto un po’ in giro per curiosità, e le risposte più gettonate sono state “il momento giusto”, “il lavoro della vita”, “la persona giusta”, “la stabilità”. Sono quasi certa che se avessi fatto la stessa domanda a Pablo sarebbe stato sicuramente più divertente e mi avrebbe spiazzato con molta più saggezza e coraggio. Pablo il lavoro non l’ha mai avuto, la stabilità forse lo avrebbe fatto ridere, il momento giusto era ogni momento, buono per restare o per scappare, e la persona giusta era quella che di volta in volta poteva aiutarlo a sopravvivere. Ecco, io non prenderei Pablo Escobar come esempio di vita retta e onesta, ma come esempio di una vita e basta; perché credo che aspettare il momento giusto significhi reputare tutti gli altri sbagliati, perché credo che il lavoro da sempre sia un mezzo di sostentamento per vivere e non il contrario, e penso che sia figlio del nostro tempo che purtroppo non è più il tempo dei nostri genitori e che, quindi, aspettare il lavoro della vita o distruggersi per ritornare sulla carreggiata principale ritrovandosi sempre a un nuovo cantiere, sia un dispendio energetico vano e poco intelligente; credo che la stabilità economica per molti dei trentenni di oggi sia da ricercare nella caparbietà e nella flessibilità di cui sono dotati di reinventarsi e adattarsi, di creare dal nulla e da capo in un concetto di stabilità nuovo e più realistico e non per questo meno stabile; credo che la persona giusta possa essere una persona giusta oggi e forse non domani, e che la probabilità che lo sia per sempre sia direttamente proporzionale alla capacità di due persone in continuo divenire di saper conferire alla coppia di volta in volta la loro forma, che cambia e cambierà. Non ci sono previsioni attendibili possibili su questo fronte, ci può essere culo, questo sì, o sfiga nella stessa percentuale, o ci può essere semplicemente una buona dose di amor proprio e amor per l’altro che permette a due persone felici insieme di continuare ad esserlo e a due persone infelici di imparare a lasciarsi. Non c’è nessuna persona giusta in assoluto a trentanni, quando si è belli che formati, quando non si può più dire di essere cresciuti insieme, quando la negoziazione giustamente diventa più severa, quando la ragione borbotta più del solito. Ed è per questo che credo fermamente che in amore come in generale, se a 20 si ha bisogno di più testa per bilanciare gli istinti, a 30 si ha bisogno di più pancia per bilanciare le paure.

Allora sì, siamo i senza pensione e i senza mutuo, i partita iva e gli youtuber, i senza figli e i senza fede al dito, ma è anche vero che a 30 anni siamo adulti e possiamo pretendere di essere riconosciuti e trattati come tali, solo se ci assumiamo la responsabilità della complessità del mondo reale in cui viviamo. Perchè ai teen sono concessi gli sfoghi e di inveire contro chi gli ha fottuto il futuro, ma a 30 diventa riduttivo e sopratutto improduttivo, tanto quanto ammutinarsi e battere i piedi per terra dichiarandosi invalidi a fare cose, a prendere decisioni, a comprendere il mondo e le sue dinamiche in nome della colpa di qualcun altro.

E’ tutto meno lineare e più confuso, più imprevedibile e incostante, è vero, ma questo è, questo abbiamo. E non solo bisogna che ci piaccia e che ci si diverta parecchio, ma bisogna soprattutto che si comprenda che non c’è veramente nulla da aspettare! Si sta giocando la vita esattamente come prima e come dopo, e sta volta cerchiamo di essere pronti a viverla.


Questo significa che ci sono cose che a un certo punto bisogna saper fare e basta: come prendersi il tempo che serve, decidere, scegliere, rischiare. Impuntarsi nel tentativo inutile di tenere tutto sotto controllo è ridicolo, perché tanto la vita poi fa comunque quel cazzo che le pare. Bisogna imparare che l’equilibrio è un attimo di magia che quasi certamente perderemo prima o poi e, quindi, l’unica cosa sensata da fare è goderselo quando c’è e finché dura senza avere paura di tutti i “per sempre” che ci hanno raccontato e con cui siamo cresciuti, che poi guardando bene non esistono o semplicemente cambiano. A volte proviamo un’ansia folle priva di senso laddove si dovrebbe imparare a sentire le cose buone e a fidarsi. Bisogna imparare che l’amicizia e l’amore sono eterni ma le persone no, e che crescere significa anche imparare a sbattersene il cazzo dei giudizi, dell’approvazione degli altri e del retaggio infantile di piacere a tutti. Bisognerebbe farsi guidare dalla tenerezza verso le proprie contraddizioni e i propri squilibri, e sapere che dentro le persone, stronzi compresi, c’è un pezzo che non ha colpa di nulla.

Una mia best amica trentenne dice sempre “Se non si guasta non si aggiusta”, e racchiude tutto il senso della potenza che c’è in qualcosa che va ricostruito, e che rappresenta occasione non per arrendersi e buttare ma per edificare con migliori e rinnovati presupposti. E poi si può fallire, sì, e di solito questo succede a chi vive, così come cadere succede a chi cammina e non a chi invece sta fermo e immobile a stagnare o ad aspettare. Perché la vita accade a quelli che vogliono farla accadere, anche se poi non va come vorremmo; ma volere e agire restano gli unici mezzi a nostra disposizione per renderla possibile.

Quindi osate, cazzo! Lasciatevi affascinare da quello che amate e che odiate tutti i giorni, scegliendo di essere liberi, liberi anche di mandare a fanculo la parte peggiore di voi e degli altri ma ricordando che la vita è comunque fragile, che le stronzate sono stronzate e non tragedie, che il rancore e la rabbia avvelenano il fegato più dei gin tonic, e che è decisamente uno spreco vivere per stare di merda o per comportarsi da stronzi.

Io mi prometto di allineare mente, cuore e viscere nel loro miglior equilibrio, e se non dovessi riuscirci spero di poter riuscire ad abbracciare questo squilibrio con la giusta consapevolezza e una manciata davvero generosa di tenerezza.


Valeria Signorelli, 35 anni, pugliese.

Preparata al peggio.

Aspirante al meglio.

578 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti

PANDEMIC

bottom of page