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BLISTER DI FESTE

  • Immagine del redattore: Una Valeria
    Una Valeria
  • 28 ago 2018
  • Tempo di lettura: 4 min

Aggiornamento: 18 ago 2020



Parliamo delle feste. In particolare del fare festa.

Sì perché arrivo a scrivere di questo, con una certa necessità di mettere fine a un'idea, tutta di provincia e tutta del sud, secondo la quale a chi piace far festa viene stigmatizzato come superficiale, poco serio, poco professionale, eterno bambino e anche un po' parecchio cazzone.

Allora: quelli che, a Pontida hanno indossato la maglietta con la faccia di Matteo e la scritta “la pacchia è stra-finita” e che osannano la stessa faccia che poi ha dichiarato “è così bella che da domani verrà distribuita nel Canale di Sicilia al posto dei giubbotti di salvataggio”, come li dobbiamo chiamare se non un po' parecchio cazzoni?!

E quelli che, quarant'anni e con diciotto figli, chiamano la mamma disperati perché il termometro segna 37.2, come li dobbiamo chiamare se non eterni bambini?!

E quelli che si qualificano come insegnanti, magari dei vostri figli, e che hanno la preparazione e l'empatia di un cactus, come li dobbiamo chiamare se non, con uno slancio di buonismo, poco professionali?!

E quelli che, in giacca e cravatta tutti i giorni, ci fottono il futuro, nostro e di quello dei nostri pro nipoti, dall'alto della parola 'politica' e dal basso della loro genetica di portatori insani di odio e disumanità, come li dobbiamo chiamare se non, con immeritata correttezza, poco seri?!

E quelli che quotidianamente ci sono accanto, che magari si svegliano anche con noi tutti i giorni, che magari sono i padri dei nostri figli, o proprio i nostri padri e basta, o le nostre madri, o le persone da cui aspettiamo un messaggio idealizzate a Lorenzo il Magnifico, e, in realtà, costantemente maldestri con i sentimenti altrui e propri, come li dobbiamo chiamare se non, con tenerezza, superficiali?!

E invece no.

Gli umani sono originali: arrivano a fare un uso così improprio dei termini, che poi, di fatto e purtroppo, vengono adottati e ritenuti reali come 'petaloso'. E così normalizzano cose surreali, illegali, immorali e insane, e ne schifano altre prese a campione come capro espiatorio di una scontentezza di fondo. Sì perché, secondo me, la verità risiede nel condizionamento sconfinato in cui si è incastrati, pensando, invece, di essere liberi autori del proprio destino, oltre che accusatori scelti professionisti e puntatori di dita da Olimpiadi. E mi meraviglia come, dappertutto e di continuo, si riesca a trovare modi per sentirsi superiori a un'altra persona o a un gruppo di persone, ignari sia proprio quello il fondo del barile di chi si è: il bisogno di trovare qualcuno da snobbare.

A me fa star bene sapere che ci sono posti in cui si può essere medici, bravi e rispettati, e allo stesso tempo fare l'autista di taxi, o il dj; posti in cui si può essere luminari chirurghi e vestirsi con una felpa extra large con il cappuccio e i jeans strappati; posti in cui si può essere dipendenti Starbucks per tutta la vita e ricevere stima.

Ci sono persone, in tutti i posti del mondo, ben mimetizzate, con un profilo basso fuori e un pozzo profondo dentro, che amano il loro lavoro, qualsiasi esso sia, e lo onorano ogni giorno: chi per passione, chi per necessità, chi per casualità, chi per scelta, ma che, in egual modo, lo considerano un mezzo per vivere, senza scambiarlo per la vita stessa. Che è altro.

Per me 'fare festa' è uno dei significati della vita. Di questa vita.

Per me ha un significato molto profondo, che immagino si possa leggere in modi diversi, e che io non so nemmeno spiegare bene a parole, ma che per me è qualcosa di vicino forse al tribalismo e, quindi, forse vicino anche alla religione. Fare festa non coincide con l'andare a una festa, fare festa è un modo di essere, un modo di rapportarsi agli altri e di stare nel mondo; è un mood di sottofondo che sa quando alzare il volume e quando mettere pausa, è un filo rosso che lega alla vita e le dà un senso, uno spessore, un sentimento.

È una forma di comunicazione che, nelle società postmoderne, diviene comunione: non si riesce ancora a cogliere quanto le “cose” di cui parliamo siano strumenti attraverso i quali riavviamo un processo di radicamento dinamico con le persone, la terra e gli oggetti che ci circondano. Tanto la modernità ha assegnato centralità alla dimensione economica, razionale e politica dell’esistenza, quanto oggi si ritorna alla “cultura” nel senso più ampio del termine. Si sente la necessità di un'elaborazione collettiva di forme di vita che si sganciano dai paradigmi della modernità occidentale e dai suoi miti, e si avvicinano alla comunicazione come elemento sacro attorno al quale le comunità si fondono e vibrano insieme. A mio avviso il fenomeno si lega anche, e forse in misura preponderante, alla dimensione emozionale dell’esistenza, al pensiero della pancia rispetto a quello del cervello.

Insomma, che balliate sotto cassa in una discoteca qualunque o che balliate da soli a casa mettendo su un disco nello stereo dei cinesi, non fa differenza. Entrambe sono forme di libertà, di sangue che scorre e cuore che pulsa. Sono preziose occasioni in cui finalmente ci si può prendere meno sul serio, si può mollare il controllo, essere imprecisi e scoordinati, sudati di endorfina e in contatto con ogni singola parte del proprio corpo.

'Fare festa' concede a tutti la possibilità di connettersi con altri a un livello viscerale alla “Ritorno alla laguna blu”. Mi rendo conto sia un piano con cui non tutti hanno dimestichezza, che a qualcuno spaventa perché tocca parti di sé primitive e sconosciute a cui nessuno ha concesso la luce, ma la vita si gioca proprio lì, nel ventre della gente: è lì che si nasce ed è da lì che si può ritrovare autenticità. Chè la ricerca della verità è imbarazzante, mentre la ricerca dell'autentico è commovente perché scava dentro l'uomo non alla ricerca di qualcosa che lo svilisca o lo assecondi a tutti i costi, ma alla ricerca di qualcosa che lo narri.

Per quanto potrò, e finché potrò, alimenterò il 'far festa' che è in me, che non esclude nulla del mio resto, anzi lo esalta. E non mi batterò più con nessuno affinché tutto questo sia compreso, né mi illuderò che tutto questo sia seguito, ma continuerò ad augurarvi il tempo. Non soltanto per trascorrerlo ma perché ve ne resti.

Per perdervi e cercarvi come fa Sky quando fate la disdetta.

 
 
 

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